La gioia di amarsi

Ci sono cose che nessuno sa.
Ci sono cose che qualcuno sa ma di cui molti ne ignorano l’esistenza.
E la labiopalotoschisi per mamma e papà fino a 17 anni fa rientrava tra queste.
Ne sono stati all’oscuro fino a quando la morfologica ne ha rivelato la verità.
Deve essere stato un duro colpo: una coppia giovane, fresca di matrimonio con quella gioia che si vive agli inizi quando si ha la prospettiva di tutta una vita davanti da trascorrere insieme e il tutto coronato dall’arrivo del primo tanto desiderato figlio e poi questo “scherzo del destino”. Ma lo sconforto è stato solo iniziale perché dopo aver capito che la disperazione non li avrebbe portati lontano con tutta la forza, che solo l’amore genitoriale può dare, hanno affrontato questa sfida con il sorriso sulle labbra nonostante da sorridere non c’era proprio nulla, nonostante tutto il dolore…nonostante tutto.
Ma partiamo dall’inizio.
Ciao a tutti mi chiamo Letizia e come avrete sicuramente dedotto 17 anni fa sono nata con la labiopalatoschisi monolaterale sinistra. Dal responso dei medici il nome sarebbe molto più complicato, ma anziché stare a dilungarci sulla terminologia che d’altronde non modifica la situazione andiamo al sodo.
Come tutti quelli che sono nati con questo dono speciale a sei mesi sono stata sottoposta al primo intervento, a due anni al secondo (ma questo non riguarda tutti state tranquilli) e così via conseguendo l’iter fino a giungere a quello di rinosettoplastica che teoricamente dovrebbe essere uno degli ultimi.
A Dicembre ho l’appuntamento con il primario, il dottor Zama per quella che pensavo fosse una semplice visita di controllo.
Non dimenticherò mai quel giorno sia perché da lì la mia vita è cambiata sia per un evento significativo.
Non so se avete presente quel lungo corridoio al San Paolo, dove la stanza di Zama è l’ultima a sinistra, beh lì davanti alla porta una mamma con un neonato in braccio era in attesa della visita. All’inizio non riuscendo a guardare quel fagottino in viso non avevo capito, ma quando ha alzato lo sguardo e ha puntato i suoi enormi occhioni azzurri su di me ho perso un battito: aveva il mio stesso sorriso, quello che avevo appena nata. Dal vivo non avevo mai visto una cosa del genere, troppo piccola per ricordare me in quel periodo, troppe foto che ho voluto evitare. E vi giuro che è stato un rimpianto non averne avuto occasione prima perché quello è il bimbo più bello che abbia mai visto, definirlo stupendo sarebbe riduttivo.
Dopo questa piccola parentesi riavvolgiamo il nastro e ritorniamo alla scena precedente: io sul lettino, Mario (il dottor Zama) che mi rigira il viso prima a destra poi a sinistra (un po’ di stretching mattutino è proprio il massimo). Una scena che avevo vissuto tante altre volte visti i controlli continui, una scena che potevo “vantare” per esperienza, ma questa volta la visita non ha seguito il suo copione abituale. È arrivata la domanda che non mi aspettavo perché fino ad allora mi avevano detto che ci sarebbe stato tempo per la rinosettoplastica.“Lo facciamo questo intervento?”
Per la prima volta non so cosa rispondere e per me che sono una chiacchierona e penso che ormai ve ne siate accorti visto l’incessante dilungarmi, è un evento raro. Non so come abbia fatto, ma ha capito il mio turbamento e mi ha congedato dicendomi che non c’era alcuna fretta, che potevo rifletterci in tutta calma a casa e una volta deciso sarebbe bastato avvisarlo tramite Arianna. Ricordo ancora le sue parole “c’ è qualcosa da sistemare dentro di te prima di farlo fuori”. Ditemi dove lo trovate un medico così. Nulla togliendo agli altri, ma nella mia esperienza e fidatevi che ne ho conosciuti tanti lui è stato l’unico a spogliarsi dal camice bianco e a parlarmi come un padre. A trascendere dalla sua carica di primario per essere semplicemente Mario. Ecco perché mi sono presa questa licenza, ecco perché non mi rivolgo a lui come dottor Zama perché in quel Mario si racchiude tutta la stima che ho nei suoi confronti e tutta l’umanità, la generosità e il cuore che quest’uomo sa donare.
I giorni dopo il controllo sono stati difficili, ma prima facciamo un salto indietro nel tempo.
In questi anni forse complice la mia famiglia, i miei amici e il mio carattere non ho mai dato peso a quello che agli occhi degli altri è un difetto di cui vergognarsi, un difetto da nascondere. Certo qualcuno aveva fatto le sue domande, anche lecite: d’altronde si sa la curiosità è di questo mondo, ma in un modo o nell’altro nessuno al di là della mia famiglia sapeva la verità. Bastava una risposta evasiva per mettere a tacere la sete della curiosità della gente.
Ma la frase di Mario mi aveva fatto riflettere, mi aveva messa nella condizione di guardare la mia vita in un’ottica diversa. Ho iniziato a pormi delle domande giungendo alla conclusione che in quest’anni il problema non mi si era posto perché non lo avevo mai affrontato e una cosa che eviti non ti crea né fastidio né disagio. Solo dopo aver compreso che la situazione andava affrontata in maniera diversa, che la scelta di andare sotto i ferri dipendeva solamente da me allora qualcosa è cambiato. Perché se fino ad allora era tutto un attenersi alle visite fissate di comune accordo tra il medico e i miei genitori in quel momento la responsabilità era la mia e la decisione è venuta da sé. Poi saranno state la scuola, gli impegni con gli amici, la mia passione per il nuoto ad assorbire
tutto il mio tempo da non lasciarmi un istante per pensare alla mia situazione clinica tanto che il giorno del ricovero è arrivato senza che io me ne accorgessi.
E questo intervento è stato completamente diverso dagli altri.
Anche se all’inizio ad essere sinceri l’avevo preso un po’ sottogamba, lo consideravo solo una piccola parentesi della mia vita che non avrebbe inficiato i miei progetti.
Già mi proiettavo nella settimana dopo organizzando i miei mille impegni sicura di tornare alla mia vita di prima in un batter d’occhio.
E invece non è stato così….
L’operazione di per sé non è stata dolorosa anzi…solo un po’ di disorientamento appena svegliata, ma è stato il post intervento a pesarmi. Per me è stata una battuta d’arresto: abituata ad essere attiva costantemente ritrovarsi lì sul letto d’ospedale con la flebo attaccata al braccio non faceva proprio per me. Sicuramente è dipeso dall’età, dal fatto che ad affrontarlo non era più una bambina che correva incurante dei richiami nei corridoi dell’ospedale, ma una ragazza che ha passato da un po’ l’età del consenso.
Alla fine però non tutto il male viene per nuocere: quei giorni mi hanno permesso di chiudere quel discorso con me stessa, quello a cui Mario aveva dato l’input.
Ci sono momenti nella vita in cui vale il principio delle tre a: ascoltarsi, accettarsi, amarsi.
E questo era uno di quelli. Ho ascoltato quello che il mio cuore mi diceva e lo ho anteposto a tutto il resto. Incurante degli avvertimenti delle infermiere di non alzarmi dal letto ho sfilato l’ago dal braccio e sono andata in bagno. Sapevo che presto sarebbero arrivati e mi avrebbero sgridato per quel comportamento poco responsabile, già sentivo l’allarme che proveniva dall’infermeria, ma poco mi importava. Davanti allo specchio c’era una me con gli occhi gonfi e tumefatti con un gesso sul naso. Se avessi fatto a botte con qualcuno ne sarei uscita meno illesa.
Ho tolto la medicazione che teneva fermi tamponi intrisi di sangue e guardandomi mi sono osservata come se fosse la prima volta e ho sorriso all’immagine che lo specchio dava, a quelle labbra un po’ speciali, al loro segno particolare e a quella cicatrice che a sinistra piano piano sale adagiandosi alla base della narice. E anche se i punti tiravano non potevo far a meno di sorridere, a sorridermi con lo stesso sorriso pieno di vita del bimbo che avevo incontrato mesi prima perché finalmente mi ero accettata.
La labiopalatoschisi non è stata una patologia, ma una maestra di vita.
Mi ha insegnato una bellissima cosa: quella di amarsi.
Amatevi perché amare se stessi è l’inizio di un idillio che dura tutta la vita.
Amatevi perché amare se stessi è un grande atto di umiltà, di conciliazione con i propri limiti, le proprie paure e le proprie insufficienze.
E allora amiamoci perché quelle cicatrici che ci segnano sul volto, sul bacino sono il simbolo della nostra forza, della nostra bellezza e non andrebbero nascoste. D’altronde non si nasconde mai il trofeo della vittoria e allora ostentiamole: sono quelle che ci hanno permesso di essere chi siamo oggi, sono quelle che ci hanno permesso di crescere e maturare.
Non ci sono parole giuste per ringraziare tutti quelli che hanno contribuito a questo percorso.
Grazie a Carlotta, Elia, Christian e Gabriele per aver condiviso con me l’ultima avventura ospedaliera.
Grazie a tutti i medici e gli infermieri che si sono presi cura di me, l’ospedale è ormai come una seconda casa.
Grazie al dottor Marino per aver collaborato e reso possibile la riuscita dell’intervento.
Grazie alla dottoressa Chianella che mi ha vista crescere.
E ormai non so più in quale lingua dirlo, grazie di cuore Mario per tutto.
State tranquilli ho quasi finito
Grazie alle mie migliori amiche, che ormai sono parte della mia famiglia, per essermi state accanto.
Grazie mamma e papà perché a voi devo tutto.
Letizia
p.s. grazie anche a voi che avete dedicato del tempo a leggere questo post.

 

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