LA PRINCIPESSA E IL DRAGO (Linfangioma)

C’era una volta, non tanto tempo fa

Iniziano così le più belle fiabe, quelle popolate da re, regine, principi nzzurri e principesse che vivono in regni incantati per sempre felici e contenti e in quella che sto per raccontare c’è una bella e dolce principessina, ma c’è anche un brutto drago da sconfiggere.

Cominciò tutto con un battito, un “tam tam” forte e chiaro come quello di un tamburo che annunciava la vita dentro il mio grembo. Col tempo il battito diventò un cuore, che batteva all’unisono col mio, delle manine chiuse a pugno, dei piedini che davano calci, il mio respiro il suo respiro, le mie emozioni le sue, ed è quest’ultima consapevolezza che mi ha fatto lottare l’ultimo mese di gravidanza contro il dolore per la scoperta che “c’era qualcosa che non andava”…il DRAGO!

Iniziò così quello che ho vissuto come il periodo più lungo della mia vita, fatto di viaggi, di ecografie, di pareri, di diagnosi prenatale, di ipotesi. Nessuna certezza. Mi sentivo studiata, compatita, denudata da ogni mio intimo pensiero, mentre mi facevano le retoriche domande tutte uguali fatte da medici diversi, mentre le risposte non sedavano le ansie che covavano nella mia mente.

Un giorno la psicologa dell’ospedale in cui visse la mia bambina per i primi quattro mesi della sua vita mi chiese: “come se la immagina Giorgia?”. Per me fu una domanda a bruciapelo e devastante perché mi resi conto che avevo cancellato ogni sua immagine dalla mia mente, non volevo avere aspettative per la paura di cocenti delusioni e provai rabbia, verso la dottoressa, ma soprattutto verso me stessa: come potevo aver paura di immaginare un piccolo fiore che sbocciava?

Il 12 agosto 2008, giorno del nostro anniversario di matrimonio, io e mio marito ci trasferimmo a Roma, per aspettare la nascita di Giorgia prevista per metà settembre, ma lei aveva tanto voglia di dare un volto a quella mano che l’accarezzava nel silenzio della notte e le diceva, nonostante le lacrime che scorrevano copiose sul viso: “c’è qui la tua mamma, vedrai, andrà tutto bene”.

E arrivò così il 25 agosto. Mi fecero ricoverare per precauzione, programmando il cesareo per il giorno dopo; mi fecero le visite, i tracciati e durante uno di questi mi sentì dire: “che caciarona!”, per i calci che dava; voleva nascere, vedere la luce del sole, ma dovette aspettare che tutto fosse organizzato nei migliori dei modi, che fossero presenti neonatologi, otorino, chirurgo neonatale, a parte l’equipe necessaria per farla nascere la stessa sera del ricovero.

E ricordo nitidamente come l’imbarazzo che provavo per essere alla mercé di tutta quella gente, si trasformò in una gioia immensa al suo primo vagito: “Giorgia piange” pensai, e questo normalmente è già emozionante, ma diventa meraviglioso quando ti danno la probabilità che non avrebbe potuto respirare e quindi piangere…

Il tempo successivo fu una continua attesa e dopo un’ora dal parto finalmente eccola, una bimba con tanti capelli neri, due occhioni grandi grandi che mi guardavano e due manine chiuse a pugno, all’interno di un’incubatrice pronta a portarmela via, dopo la concessione di una carezza data infilando la mano dall’oblò, un intimo tocco sulla sua pelle che ha tracciato sul mio cuore il segno indelebile di un amore infinito.

Ho aspettato anche per essere riportata in camera e da ruolo di mamma riprendermi quello di figlia tra le braccia di mia madre che non vedevo da settimane e alla quale avevo nascosto del parto anticipato perché era ancora sul treno che la portava da me e non volevo farla preoccupare.

Ho aspettato anche di avere notizie da mio marito sul trasferimento e ricovero in TIN della mia bambina…ho aspettato sveglia che terminasse in fretta quella notte solitaria in quell’ospedale che non conoscevo mentre sentivo il Tevere scorrere lento come le lacrime sul mio viso.

Passarono due lunghi giorni prima di essere dimessa e nonostante i dolori lancinanti, decisi di firmare la cartella e raggiungere la mia bambina che aspettava tranquilla tra le lenzuola a pois colorate, indifferente al suono dei monitor, al pianto degli altri neonati, al chiacchiericcio degli infermieri con noi genitori, buffi all’interno dei camici a strisce blu, cappellini e sovra scarpe per proteggere le piccole creature dal mondo esterno.

Quando la vidi scoppiai a piangere: aveva il saturimetro al dito, gli elettrodi sul cuoricino e i capelli rasati a metà con un ago cannula infilato sulla testolina. Mio marito per sdrammatizzare mi disse, abbracciandomi: “sembra PO dei teletubbies” per il filo a molla che si allungava per facilitare i movimenti.

Dal momento in cui ci facevano entrare in reparto io, forse egoisticamente, non mi allontanavo più dalla culletta, se non per “procurarle” il latte in maniera meccanica, cercando di farglielo bere dalla bocca, nonostante le sue limitazioni anatomiche, per scongiurare il posizionamento del sondino naso gastrico. Quante tettarelle abbiamo provato!!!! Ma l’infermiera mi diceva che doveva bere nello spazio di tempo indicato per la poppata e Giorgia “aveva i suoi tempi”! Nel reparto di chirurgia neonatale tutto aveva un tempo: il tempo di mangiare, il tempo per fare il bagnetto, quello per la terapia, per il colloquio con i chirurghi, per l’incontro con la psicologa…le mie esigenze, i miei desideri, la gioia di poterle fare il bagnetto, di vestirla, di dormirle accanto e sentire il suo respiro, erano messe da parte a favore, giustamente, dall’organizzazione del reparto. Di notte mi svegliavo per il forte dolore al seno e mi mettevo seduta a tirare il latte che la mattina seguente le portavo come simbolo dell’unico legame che ci teneva uniti anche se distanti.

Fino al giorno della prima scleroterapia: ci avevano rassicurati che una volta eseguita, dopo due giorni necessari per monitorare la reazione, ci avrebbero dimessi; un’ora o poco più ad aspettare fuori dalla sala operatoria di emodinamica, l’incontro successivo col medico che ci spiegava quello che avevano fatto e la reazione di Giorgia, la quale per sicurezza era stata portata in terapia intensiva. Altra attesa (4 ore) per poterla rivedere, intubata, col volto livido e i polsi pieni di piccoli buchi: ricordo lo strazio di quel periodo in cui appena le accarezzavo il piedino lo ritraeva immediatamente.

La situazione precipitò dopo due giorni, in cui le sue condizioni respiratorie andavano via via peggiorando, subentrando un pneumotorace bilaterale a causa di un’insufficienza respiratoria acuta causata, mi dissero, da un tappo di muco che ostruiva la trachea, e toccarono il fondo nel momento in cui mi sentì squillare il telefono e una voce femminile mi diceva: “mi dispiace signora, torni in ospedale, perché la situazione si sta facendo difficile”

… e tu preghi la Madonna affinché ti faccia arrivare in tempo, in tempo per poterle dare un bacio, come se la forza dell’amore potesse bastare a scongiurare il peggio. Un forte temporale squarciava il cielo notturno di Roma mentre mio marito correva con la macchina per strade che non conosceva, nel silenzio assoluto, mentre ti senti perdere il respiro, mentre le gambe cedono al tuo stesso peso e le lacrime diventano l’unica manifestazione vitale in un corpo che diventa quasi esanime se non fosse per il battito del cuore che ti martella fino al cervello e ti pulsa nelle orecchie non facendoti sentire più nessuna parola di conforto, se non il grido disperato delle tue preghiere.

Anche avendo fatto tutto di corsa, altra attesa prima di farcela vedere e nel frattempo tanti medici intorno a me e mio marito per parlare di probabilità…e di poche speranze.

Finalmente ci fecero entrare, avvicinare alla sua culletta dove lei, stremata respirava grazie ad un respiratore chiamato “lavatrice” e tanti tubi che straziavano il suo piccolo corpicino che lottava con tutte le forze contro la morte.

Ricordo come fosse adesso la speranza che provai la mattina seguente quando mi dissero: “la bambina di adesso non è la bambina di stanotte” nel senso positivo della cosa e la mia unica risposta e consapevolezza fu: “dottoressa, Giorgia vuole vivere!”.

Seguirono giorni difficili, scelte dolorose, piccoli cenni di miglioramento mentre io accanto alla sua culletta non smettevo un solo istante di parlarle e di accarezzarla, contro il parere degli infermieri che mi continuavano a dire di non stimolarla; ma era inconcepibile che gli unici stimoli che doveva subire erano quelli dolorosi.

Non aveva neanche un mese di vita quando ci fu consigliata la tracheotomia, nonostante la stessa avrebbe potuto comportare rischi di emorragie, ma necessaria per supportare la respirazione e tutelare la mia bambina durante le altre scleroterapie…sette in tutto e tutte inutili!

Fu difficile vederla curarizzata, immobile, con gli occhietti chiusi, doverla aspirare…21 giorni di terapia intensiva, periodo in cui ricevette il Battesimo da padre Mario, mitico prete e uomo.

Ricordo la paura per la seconda scleroterapia: quella notte mi volli fermare all’ospedale, seduta accanto alla sua culletta mentre la guardavo dormire beata e reclamare solo al momento delle poppate. Tornai a Bello Sguardo, l’alloggio che ci era stato dato dall’ospedale, solo la mattina seguente, quando non era più permesso stare all’interno del reparto, per tornare a mezzogiorno ed aspettare nella sala d’attesa che si aprissero le porte e noi genitori entrassimo, o sperare ogni giorno che ci fosse qualche volontaria che ti accompagnasse la bimba nella “stanza del latte” per poterla tenere un po’ in braccio nell’intimità di una stanza che a quell’ora era vuota.

Tra infezioni, trasfusioni, la terza scleroterapia passarono quattro mesi prima di essere dimessi col programma di fare successive scleroterapie.

Dopo un viaggio in macchina durato dieci ore per le continue soste tra poppate dal sondino e rigurgiti abbondanti siamo arrivati a casa alle 11 di sera e ad aspettarci c’erano i miei genitori che finalmente conoscevano la nipotina e riabbracciavano la figlia dopo 4 mesi di assenza da casa.

A casa, lontani dalla realtà ospedaliera, vivi la situazione in modo diverso: si hanno accanto le persone care che ti danno la forza quando la senti scemare ed ogni volta che ho avuto paura di fare scelte o cose sbagliate, vedevo gli occhi di Giorgia cercarmi e darmi la forza e tutto il resto non contava più.

25 dicembre, il suo primo Natale a casa.

Com’era bella col suo vestitino di velluto rosso! Quanta gioia nel cuore di tutti per aver finalmente la possibilità di fare ognuno il proprio ruolo: io da mamma, orfana di tutti quei gesti e pratiche quotidiane che ti dovrebbero accompagnare durante la crescita della propria figlia, i nonni a coccolare quel piccolo cucciolo indifeso che non piangeva mai, non si lamentava di nulla, neanche quando la sua lingua enorme e lacerata ingombrava la sua bocca tanto da non riuscire nemmeno a sorridere…figuriamoci a mangiare!!

E inesorabilmente il tempo passava e si avvicinava il periodo dello svezzamento: come nutrirla se era già complicato infilare il cucchiaino in bocca? Non è mai riuscita nemmeno a tenere il ciuccio perché le scappava dopo due ciucciate, tant’è che per ovviare, gli infermieri glielo “legavano” in bocca con un lenzuolino che le ha fatto da ciuccio fino ai tre anni di vita, visto che quello vero le scappava comunque e le restava la stoffa da ciucciare.

Provavo a darle col dito la frutta, la crema di riso cercando di farle conoscere nuovi sapori per spingerla a mangiare per bocca ma lei, non è che non voleva, non ci riusciva perché la sua lingua spingeva il cibo all’esterno ed io m’intenerivo e la nutrivo attraverso il sondino tenuto per un anno e un mese, fino a quando una mattina mentre le cambiavo i cerottini messi a mo’ di baffetti, mi feci coraggio e le dissi sfilandoglielo: “Ora o mangi con la bocca o muori di fame”. Io sapevo che avrei potuto sempre rimetterlo, ma lei no! E fu così che imparò a mangiare, a poco a poco, per la paura di farla soffocare mentre da sola insistevo con tutti i cibi per l’infanzia semisolidi che conoscevo, escludendo il latte, ma imbottendola di yogurt. Cercavamo disperatamente una logopedista che ci aiutasse in questo delicato passaggio, ma a Reggio Calabria, nessuno, nemmeno a pagamento si è voluto prendere la responsabilità di insegnarle quello che lei ha imparato con l’aiuto di mamma e papà, per paura che gli esercizi per la muscolatura o lo spazzolamento potessero provocare danni alla sua lingua…e più mi sentivo ABBANDONATA, più la mia forza aumentava per dimostrare quanto brava fosse mia figlia.

 

Anche il cambio della cannula tracheostomica è stato sofferto: portata all’ospedale della mia città, ci accorgiamo nel momento del cambio che quella appena posizionata era un modello diverso che per la posizione anomala della sua stomia (spostata a destra) la faceva tossire ininterrottamente. Quindi con grande orrore ho dovuto accettare che le riposizionassero quella appena tolta e toccata da più mani, lavata solo con soluzione fisiologica! E pensare che io sono infermiera e a volte preferirei essere ignorante in materia! Anche questo mi spinse a prendermi di coraggio per l’ennesima volta e decidere che i futuri cambi delle cannule sarebbero avvenuti a casa mia e attraverso le mie stesse mani; ma che adrenalina ogni volta!!!

Nel frattempo pregavamo che ogni risonanza magnetica potesse essere diversa da quella precedente dovuta ai miglioramenti sperati, ma le parole dei medici non ci davano nessun conforto e si tornava a casa sempre più amareggiati.

Nulla mi fermava però a proseguire nelle scoperte da farle fare: le leggevo tutti i giorni delle favole, per farle sentire la mia voce con la speranza che questo potesse aiutarla con il linguaggio quando sarebbe arrivato il momento di superare anche quest’altro muro, le compravo giochi colorati, luminosi, ricchi di suoni che attiravano la sua attenzione e l’estate ci ha permesso di farle conoscere un po’ di più “il mondo”: il mare, il luna park, i giochi con la cuginetta poco più grande di lei. Le facevo fare gli esercizi per abituarla a stare prima seduta e poi in piedi, fino ai suoi primi passi: che emozione vedere le sue braccia protese non per paura del distacco da me, ma per cercare l’equilibrio che ancora le mancava!

Poi la scoperta, quasi per caso del tappo fonico; non avendo una logopedista, nessuno me ne aveva mai parlato se non il papà di un altro bimbo tracheostomizzato che ci raccontò del figlio che non lo sopportava. Subito facemmo richiesta tra i presidi necessari a Giorgia e tra smorfie, boccacce, gesti inconsueti fatti da tutti coloro che la circondavano per distrarla, a pochi secondi alla volta, passo dopo passo si rendeva sempre più conto che quel piccolo cilindro le serviva per far fuoriuscire dalla sua bocca i suoni e sentirmi chiamare, per la prima volta il 19 novembre del 2009, MAMMA! Mi scoppiava il cuore dalla gioia, a me che incredula non avrei mai sperato che mia figlia, con quel problema alla lingua potesse un giorno rivolgersi a me chiamandomi mamma.

Dovettero trascorrere quasi 2 anni della sua vita prima di incontrare il dottor Mario Zama che intervenendo ha dato finalmente a mia figlia la possibilità di poter vivere una vita quasi normale.

A giugno del 2010, dopo l’ennesima risonanza magnetica che documentava l’inutilità delle scleroterapie decisi di inviare una mail alla dottoressa Lucia Aite, psicologa della chirurgia neonatale, con la speranza che potesse smuovere gli animi dei chirurghi a cui era affidata la vita di Giorgia e decidere quale alternativa adottare. Dopo una settimana ricevetti risposta dal Dottor Bagolan e dal dottor Zama che leggeva in copia, con una lettera che mi tolse il respiro, molto esplicita che non tralasciava nessun dettaglio nella descrizione di un eventuale intervento chirurgico e mi elencava tutti i rischi che avrebbe corso mia figlia sottoponendola all’intervento e la possibilità (il 30%) che non riuscisse a superare lo stesso. Quelle due pagine li lessi un’infinità di volte cercando di metabolizzare tutte le parole e capire fino in fondo ogni singola frase. Per loro probabilità, numeri, casistiche, per me il cuore infranto!

Nel frattempo osservavo mia figlia, ogni suo gesto: quando si svegliava la mattina con un sorriso e attirava la mia attenzione con la sua manina accarezzandomi il viso o prendendomi il naso a mo’ di campana, quando seduta per fare colazione mi faceva segno verso la Tv per farle vedere i cartoni, quando mangiava e mi faceva segno col dito sulla guancia per farmi capire che le piaceva. La osservavo mentre sul letto, invece di dormire faceva le capriole o quando con lo zainetto alle spalle si avvicinava al portone di casa per farmi capire che voleva andare a giocare con gli altri bimbi. La guardavo mentre apriva il frigo per prendere il gelato e si toccava la lingua col dito per dirmi che lo voleva mangiare. La osservavo in tutti i suoi gesti quotidiani e questo mi ha spinto a volere l’intervento… Perché quando si svegliava la mattina era bello sentire il suo tocco, ma ancora più bello sarebbe stato sentirla chiamare “mamma”, poterle fare la doccia senza paura di farle andare acqua in trachea, poterle fare assaggiare cibi diversi dagli omogeneizzati senza dover sentire il brutto sapore di sangue in bocca, permetterle di fare le capriole senza correre il rischio che si pesti la lingua procurandosi emorragie o portarla a giocare con gli altri bambini senza la paura che si faccia male o le facciano del male involontariamente.

E ripensando a tutto quello che avevamo vissuto fino a quel momento, dal momento in cui l’ho accarezzata per la prima volta e poi portata via da me, al momento in cui l’ho rivista nella culletta attaccata a fili e flebo, a quella maledetta sera in cui mi sono sentita dire al telefono “signora torni in ospedale perché la situazione sta diventando difficile” o a tutte le volte in cui a malincuore l’ho dovuta lasciare in braccio agli infermieri di sala operatoria sentendo quasi la sua voce per il forte pianto e vedendole sue braccia protese a me, ho nutrito la speranza e la convinzione che dopo aver toccato il fondo bisognava salire per forza a galla.

Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande! Così leggevo su un libro in cui non avrei mai pensato di leggere una frase del genere; e questo mi diede più forza per affrontare l’incontro con i chirurghi in questione a luglio per decidere la data del primo intervento, data fissata per ottobre.

Tutto pronto, doppie valigie per eventuali cambi da portare giù a casa e lavare (perché quando vai fuori dalla tua città vivi il disagio per ogni cosa), pigiami aperti sul davanti per poter gestire e proteggere meglio la sua ferita, giochi e libri da colorare per far trascorrere il suo tempo tra le mura dell’ospedale…ma durante il viaggio la sua temperatura cominciò a salire e la sua lingua a gonfiarsi e sanguinare tanto da costringerla ad un’ospedalizzazione di 15 giorni sotto antibiotico, cortisone e ferro e l’inevitabile annullamento dell’intervento.

Giorgia viene dimessa in buone condizioni di salute così era scritto sulla relazione consegnata alle dimissioni, ma quel viaggio di ritorno a casa non lo scorderò mai: mia figlia continuava a lamentarsi per il dolore alla lingua ridotta ad un ammasso di carne irriconoscibile, lacerata in più parti, sanguinante e piena di croste che le impedivano il minimo movimento, costringendola a tenerla fuori dalla bocca per il suo volume. Arrivata a casa le misi una supposta con la speranza di migliorare le sue condizioni e passai una settimana facendole lavaggi alla lingua con garze imbevute di soluzione fisiologica per rimuovere le croste e crema che le rinfrescava un po’ la parte. Fino a decidermi di scrivere una mail al dottor Zama chiedendogli di decidere al più presto la data per cercare di aiutare mia figlia a vivere più serenamente.

E così fu: il 25 novembre 2010 preparai mia figlia all’intervento.

Eccola, davanti a me, col suo Kimono azzurro ignara di ciò che dovrà subire, che mi tiene stretta a sé e mi sorride nonostante la voglia di bere il suo latte mattutino. Ci chiamano, la fanno sdraiare sulla barella ed io cerco di renderle meno amaro quell’ennesimo viaggio verso la sala operatoria in cui starà sei ore per rimuovere gran parte del suo linfangioma sottomandibolare e tagliarle metà lingua affinché possa tenerla all’interno della bocca.

Fuori dalla sala operatoria io non aprii bocca, mi dava fastidio anche il più piccolo accenno di abbraccio dato da chiunque, mi sentivo tesa come le corde di un violino e pregavo la Madonna, che in quanto mamma poteva capire il mio dolore ed evitarmene uno più grande.

Rividi mia figlia solo nel pomeriggio, quando ci permisero di entrare in rianimazione e incontrare i dottori e mentre una di essi mi parlava delle condizioni della bambina si avvicinò il dottor Zama e disse alla collega toccandomi una spalla: “la vedi questa mamma? Domani la rivoglio nel mio reparto con la figlia”.

Passai la notte in albergo da sola, senza mia figlia e senza mio marito che aveva dovuto prendere posto all’alloggio dell’ospedale, in quanto non credevamo che sarebbe bastato passare una lunga notte lontana da mia figlia e ci preparavamo a trasferirci a Roma per chissà quanto tempo; invece Lui, il nostro dottore parlava con cognizione di causa e la mattina successiva, mentre compravo un carillon a forma di angioletto mi squillò il telefono per sentirmi dire che lei reclamava a gran forza la mia presenza nel reparto di chirurgia plastica.

Giorgia era rinata un’altra volta!!!!!

La misero in una stanza ad un letto per proteggerla dalle infezioni e lasciarla tranquilla durante la fase del post operatorio, aveva la lingua enorme e nera che le ingombrava la bocca e si nutriva con la parenterale ed io le continuavo a mettere le garze umide per non farle venire le croste. Dopo due giorni il dottore decise di aspirare dalla lingua gonfia il sangue ristagnante e armato di siringa da 20 ml e dicendomi di uscire dalla stanza se m’impressionavo, pungeva la lingua per ridurre il suo volume, mentre io tenevo le mani di Giorgia e le sussurravo all’orecchio che tutto sarebbe passato presto e che presto le avrei dato il suo budino al cioccolato che tanto adorava. Non versò una lacrima lei, io invece le ingoiavo amare sentendo quella punta dell’ago all’interno del mio cuore!

Però il giorno successivo mantenni la mia promessa e col dito cercavo di spingere all’interno della sua bocca il budino e lei accennava dei piccoli movimenti con la lingua e così evitava una nuova congestione della stessa. E pian piano, contro ogni previsione, dopo una settimana era nel corridoio del reparto che camminava stretta alla mia mano e sorrideva a tutti, medici ed infermieri e reclamava la sua pappa più sostanziosa.

Tornammo a casa dopo dodici giorni dall’intervento e dopo le prime difficoltà nel mangiare e soprattutto nel bere senza sbrodolarsi, ricominciammo a vivere la nostra quotidianità più normalmente possibile, cercando anche di migliorare la sua situazione dal punto di vista logopedico.

Comprai un libro di esercizi logopedici e dopo averlo studiato e preso appunti cominciai a farle fare gli esercizi passando i nostri pomeriggi giocando con candele, fischietti, cannucce e bolle di sapone, senza far mancare la Nutella da farle leccare più possibile, un po’ lei e un po’ io! E annotavo su un quaderno tutti i suoi progressi, le sue prime parole, le mille figure da colorare dando il nome all’oggetto, le sue prime farfalline Barilla, le sue prime fette biscottate!

E tra una trasfusione e una risonanza magnetica, arrivò il momento del secondo intervento, durato anch’esso 6 ore che a causa dello “stupor” rese la sua faccia sinistra immobile per oltre un mese, ma a parte questa conseguenza inevitabile dovuta all’infiammazione dei nervi stuzzicati, eseguito con eccellenza e senza conseguenze permanenti. Rideva e piangeva solo con il lato destro della faccia, il sinistro era inespressivo; era semiparalizzata anche la palpebra sinistra che teneva semiaperta anche mentre dormiva.

Ritornati a casa, altri progressi: tolto il pannolino e messe le mutandine, a parte qualche pipì sparsa per casa ci mise solo qualche giorno per imparare dove doveva farla e il suo linguaggio si arricchiva sempre più di parole nuove. Mi diceva “ora sono grande!” ed è vero, lo è in tutti i sensi!

Dopo un mese e mezzo si cominciavano e vedere i miglioramenti e ricominciavo a vedere il suo bel sorriso, a vederla masticare con più forza, a battere meglio la palpebra e a modo suo farmi la linguaccia.

Una sera nel letto abbracciata a me mi chiese “mamma sei felice?” io le risposi di si, perché avevo una figlia meravigliosa e lei mi disse “anch’io sono felice, perché ho una mamma come a te”. Sono queste le parole che ti fanno andare avanti ogni volta che ti senti morire dentro, ogni volta che perdi la speranza, ogni volta che non vedi vie d’uscita. Ti torna tutta la forza di lottare per quella bimba che crede in te, che è felice solo nel vedere te felice e serena, che vive in simbiosi con te: io la sua forza, lei è la mia!

Altra tappa importante la decisione di rimuovere, finalmente dopo tre anni e mezzo, la tracheotomia. A maggio 2012 fummo ricoverati nel reparto di chirurgia plastica dove effettuata una risonanza magnetica, una fibroscopia e una consulenza con la dottoressa Antonella Cerchiari, logopedista, disfagista e deglutologa del Bambino Gesù. Venne deciso di mettere il tappo fonico totalmente tappato anche mentre la bambina dormiva, monitorando i suoi parametri sempre sorprendentemente ottimi, tanto che a distanza di un mese fummo ricoverati a Palidoro per rimuovere un granuloma e a distanza di poco tempo la cannula.

Era un momento tanto atteso, quanto temuto per me, ma quando quella mattina la dottoressa mi disse che potevo essere io a toglierla, con le mani tremanti ed emozionatissima mi sono sentita come se la stessi partorendo nuovamente: ho risentito la voce di Giorgia limpidamente ed è stato come quando ho sentito per la prima volta il suo pianto.

Dopo qualche mese, in una delle tante visite di controllo il dottor Zama ci informò di una cura ancora del tutto sperimentale, ma che in America stava già avendo i suoi frutti riducendo i linfangiomi presenti su bambini curati col Sildenafil, ovvero il comune Viagra, consigliandoci di tentare anche se con molta probabilità i risultati non sarebbero stati eclatanti a causa degli esiti da interventi chirurgici, ma che valeva la pena comunque provare a ridurre anche di poco i centimetri della malformazione.

Purtroppo, come tutte le scleroterapie, anche questa strada non portò i risultati sperati, nonostante la mia piccola prendeva diligentemente, senza mai lamentarsi, per quattro volte al giorno le sue compresse che come risultato la anemizzarono ulteriormente costringendola ad altre trasfusioni.

Incontrammo a gennaio 2013 il dottor Zama, il quale ci propose un ulteriore intervento alla lingua per ridurre la massa fatto poi a giugno 2015.

Giorgia dovrà ancora affrontare altri interventi riduttivi per il suo linfangioma e scongiurare il continuo stillicidio, cercando nel frattempo di vivere la sua vita come tutti gli altri bambini: andando a scuola, facendo le sue recite che orgogliosa la sua mamma guarderà piangendo, viaggiando per il mondo e scoprendo cose nuove per tempestarmi poi di domande, inviandomi su wzp il video girato dal suo papà per dimostrarmi di aver imparato ad andare in bicicletta senza rotelle mentre io ignara al lavoro li credevo a casa a guardare i cartoni. Adesso mentre lei aspetta la chiusura definitiva della tracheostomia per potersi tuffare nel mare azzurro, noi la guardiamo crescere sempre più fieri di lei e ci nutriamo della sua immensa forza per sconfiggere insieme il drago cattivo.

 

Mimma